Biovio, Bruna e Alessandri.
Parte II
Athos-Bruna
Lasciata Bastia, la stessa accolita composta da Franco Demoro, Nardo Anselmo ed io, seguendo il corso del torrente Arroscia, trova Ortovero, ancora in provincia di Savona, sede di molte aziende vitivinicole, e sede anche di una delle quattro Enoteche regionali. L’articolo 1 dello statuto recita “ Costituita per la valorizzazione dei vini regionali, con particolare riguardo a quelli a denominazione d’origine e a quelli ottenuti con metodi di agricoltura biologica ed integrata, nonché di altri prodotti derivati dalla lavorazione dell’uva, del vino e di altri prodotti agricoli e agro-alimentari tipici e di qualità regionali“.
Edificio color pastello ligure, giallo e rosa, dotato di sala conferenze e sala degustazione, è di proprietà del comune di Ortovero, ed è gestito dalla rete d’impresa, “Vite in Riviera”, i cui soci sono le stesse 25 aziende vinicole che aderiscono anche all’enoteca regionale di Ortovero. Mi sembra una grande idea; per valorizzare un territorio, bisogna presidiare il territorio, bisogna conoscere ogni vigneto, ogni produttore, ogni annata e le sue diverse sfaccettature. Chi può farlo meglio, degli stessi produttori?
Lasciata indietro Ortovero, pur rimanendo nella stessa valle, cambia la provincia e da Savona si passa ad Imperia.
Entriamo in Ranzo.
Ranzo è la capitale di fatto del Pigato, perché nel suo comune ci sono i vigneti considerati migliori, dei veri e propri Cru, con terroir differenti e di conseguenza espressività uniche. In quale luogo poteva risiedere Athos, se non nella capitale? Così parcheggiato di fronte alla cantina, siamo entrati nel market di paese, negozio, ormai sospinto dallo strapotere degli ipermercati, nelle riserve degli entroterra. Dove la distanza da qualcosa, in questo caso aiuta. Spostate, cercando di non far rumore, le colonne anti-mosche di plastica, presenti sull’uscio di ogni casa di campagna, ci accompagnano attraverso una porta laterale nel retro, dove due scrivanie sono l’ufficio, un mobiletto di legno l’esposizione della produzione, ed un tavolo, sempre di legno, la sala degustazione. La Liguria endemicamente ha il problema dello spazio. Le coste sono a ridosso delle montagne, e le case hanno ambienti piccoli. Per farne di più. Per ottimizzare. Così è normale che i liguri cercassero nello spazio sterminato del mare, lo spazio che non avevano sulla terra.
Qui non ci sono arroganti direttori commerciali col sigaro in bocca ad accoglierci, come ci è capitato in un’azienda di Franciacorta, ma l’adorabile semplicità di Francesca, una delle due figlie, che ora realmente conducono l’azienda. L’altra si chiama Annamaria. Le figlie di Riccardo Bruna, Athos appunto, che prende una sedia di quelle del tavolo e si siede in un angolo della stanza, a un metro da noi. I vecchi liguri sono così, sospettosi, burberi all’apparenza, e certamente ritrosi nel dare confidenza. Ma Riccardo è stato anche un rivoluzionario, il primo a vinificare e a imbottigliare il vino per venderlo a Ranzo, il primo e l’unico ad usare le acque del torrente Arroscia, che faceva percolare intorno ai tini, per abbassare la temperatura di fermentazione. E vinte le iniziali perplessità, cominciamo a parlare, a chiedere, ad ascoltare. E dall’alto della sua esperienza di cose sagge da dire ce ne sono tante.
Intanto nei bicchieri era stato servito la novità dell’anno: il vermentino 2015, prima vendemmia venduta al pubblico.
Era così per completare la gamma…noi abbiam sempre coltivato Pigato, ma anche il Vermentino è un vitigno della zona, e allora qualche anno fa ne abbiamo piantato un po’.
Ecco l’adorabile umiltà di chi conosce la distanza che c’è dal braccio alla terra. Di chi sa quanto sia bassa la terra. Non si vantano, non si celebrano e non parlano di premi o riconoscimenti ricevuti.
Con profilo olfattivo delicato e fine, di fiori bianchi e pesca bianca. In bocca è mineralissimo, ma nell’insieme davvero piacevole. Primo anno, quindi piante giovanissime, e il risultato è già quello di fare un vermentino che distanzia la massa ed insegue i migliori dei suoi colleghi. Se il buon giorno si vede dal mattino.
Il Vermentino è il lato femminile e il Pigato è il lato maschile dello stesso vitigno, anche se sembra, dallo studio del dna, che siano la medesima cosa. Continua Riccardo.
Dietro di noi, accanto alle bottiglie di Majé e Le Russeghine, esposte ci sono ampolle di vetro con un campione del terreno dei due vigneti. Bianco perché composto da roccia calcarea e argilla azzurra, quello del Majé; Rosso di argilla rossa, ricca di scheletro con rilevante presenza di minerali di ferro.
Riccardo ci obbliga ad interrompere la degustazione, per andare a vedere il vigneto delle Russeghine, perché avremmo meglio capito. A dire il vero, avrebbe voluto mandarci a vedere anche il vigneto Garaxin a Pogli d’Ortovero, ma il tempo a disposizione non ci permetteva entrambi.
Mentre camminavo ai bordi del vigneto e tra i filari, ascoltavo le parole di Francesca, e ripensavo alle parole di Mario Soldati: si conosce il vino solo quando si conosce chi lo produce.
“Mio marito Roberto è il vero artefice della qualità dei nostri vini. Lui vive in campagna. Conosce ogni pianta di ogni vigneto. E’ un vulcano che erutta ogni giorno idee nuove. Abbiamo deciso ormai da anni di praticare una coltivazione diciamo Naturale, non usiamo diserbo, e ad ottobre seminiamo tra i filari orzo, senape e trifoglio, per generare competizione tra le piante e fargli produrre di meno. Sempre in quest’ottica in primavera, appena compaiono le foglie sfogliamo molto, così la pianta produce foglie e grappoli più piccoli e più spargoli. Di conseguenza abbiamo uve concentrate e meno soggette alle malattie.”
(Grappoli di Pigato del vigneto di Bruna; si noti la dimensione e la picchiettatura che inizia a vedersi sugli acini)
Circondato dai fili elettrici, per inibire il pranzo dei cinghiali, il vigneto di proprietà di Bruna non è in regime di Monopole, infatti, altri hanno le vigne sullo stesso sito. Salgo una fascia inerbita e sono ai piedi del vigneto confinante, coltivato seguendo i prospetti della coltivazione convenzionale, con l’obiettivo di vendere le uve.
Le foglie sono grandi quasi il doppio, mentre i grappoli sono proprio il doppio, e ovviamente non spargoli. Se devo vendere l’uva per fare vino, il mio interesse è che sia sana e che sia molta. Se voglio fare vini di qualità, la pianta deve produrre poco. Obiettivi diversi, portano a scelte agricole diverse. Anche i risultati in degustazione però, sono diversi.
(Grappolo di Pigato di altra azienda; si noti la dimensione )
Ritornati ai vini, alla voce roca di Riccardo, ed alla confortevole ospitalità dei Bruna, assaggiamo Il Pigato Majè 2015. Majè è il nome in dialetto dei muretti a secco, ma solo nella provincia d’Imperia come dice mio cugino Beppe Anselmo, perché ad Andora si chiamano Meau. Muretti a secco che sono l’anima del vigneto Garaxin. Fermentazione in acciaio a 16°C e affinamento in acciaio, sulle fecce fini per 6 mesi.
Rlp Pigato Majé 2015 (87-88/100) Il ricordo del vermentino era ben lucido, così netta era la distanza di campo e di colore, che nel Pigato era del giallo. Al naso un bel mazzo di fiori gialli, la pesca gialla, ed agrumi come cedro insieme alle note vagamente fumose del bergamotto. Anche gli smalti arricchiscono l’insieme. In bocca è austero, tratteggiato da mineralità e acidità, contro una materia comunque presente. Persistente e intrigante il finale.
Riccardo gentilmente rifiuta il bicchiere che la figlia gli offre, dicendo in dialetto, che lo conosceva già. Era suo figlio.
Francesca, che durante le nostre analisi e osservazioni, aveva servito due clienti di vino, incalza con Le Russeghine 2015. Le Russeghine è il nome del Cru che abbiamo visitato precedentemente. Situato sopra a Ranzo, prende origine dal colore rosso della terra sul quale è piantato. Fermenta in acciaio a 18°C ed affina, parte in acciaio e parte in botte grande, sulle proprie fecce fini, per 8 mesi.
Riccardo per non fare torti ai diversi figli, gentilmente declina anche il calice delle Russeghine. Conosce anche quello, dice.
Rlp Pigato Le Russeghine 2015 (89/100) Naso espressivo, definito, affascinante, con agrumi più verdi come il lime o mediamente acri come il pompelmo. I fiori sono di ogni tipo, e si distinguono anche le erbe aromatiche come la salvia, e il timo. La pesca gialla chiude l’insieme. In bocca conferma le attese e si rivela avvolgente e consistente, con durezze ben evidenti e morbidezze a tenere il passo. Tornano gli agrumi e le erbe aromatiche per un finale persistente e davvero gratificante. Ottimo vino con ampi margini di crescita.
Aveva ragione Riccardo a volerci mandare prima nei vigneti e poi assaggiare i vini, e Mario Soldati con lui: “Che cosa ci dice l’odorato, e il palato, quando sorseggiamo un vino prodotto in un luogo, in un paesaggio che non abbiamo mai visto, da una terra in cui non abbiamo mai affondato il piede, e da gente che non abbiamo mai guardato negli occhi, e alla quale non abbiamo mai stretto la mano? Poco, molto poco.”
E’ proprio così.
Dopo altri assaggi, in altre sedi, posso concludere che il Pigato le Russeghine 2015 è il miglior pigato dell’annata. E lo resterà fino a quando non uscirà suo fratello maggiore: U Baccan. Il Pigato U Baccan da anni vince il premio simbolico del miglior Pigato (Premio di cui sono unico giudice); prodotto da una selezioni di vigne vecchie di oltre 50 anni, principalmente dal vigneto Russeghine, ed in minor parte dal vigneto Garaxin. Esprime la sintesi dei due Cru, riuscendo ad essere così insieme, austero e loquace, un grandissimo vino. Una Poesia. E le poesie non hanno una sola interpretazione. Così come l’origine del nome: in parte per celebrare Riccardo “U Baccan” (Il Capo), ed in parte per ricordare Creuza de Ma [1], una poesia in musica, di un grande poeta ligure, Fabrizio De André.
Purtroppo U Baccan 2015 stava ancora riposando in cantina, perché uscirà a marzo 2016 e a malincuore non lo abbiamo potuto assaggiare.
Dopo i rossi, che racconterò in altri racconti, Riccardo ci ha accompagnato alla macchina e stringendoci la mano ha commentato: “E’ un piacere parlare con gente come voi.” Poi si è incamminato verso casa, ma fatti due passi si è voltato: “…E vi aspetto quest’inverno per gli assaggi dalla botte…quella è un’altra poesia.”
Mi sono Commosso. I vecchi liguri non fanno complimenti. Non gli serve più e lo sanno.
No, il piacere è soltanto mio anziano e simpatico burbero. Piacere di aver conosciuto un vignaiolo, di quelli che vivono tra la campagna e la cantina. Piacere di aver ascoltato i tuoi ricordi, e di aver imparato un sacco di cose. Piacere di aver conosciuto un poeta. Di quelli che vedono la realtà sotto altra forma. E gli sanno dare un senso. Di quelli che anticipano i tempi. E sanno interpretare la prospettiva. Ogni tempo ha la sua rivoluzione. Riccardo è stato un rivoluzionario nel suo tempo, le figlie e Roberto lo sono nel loro. E se per avere vini ancora più buoni ed unici, bisogna tornare al passato, e coltivare senza veleni, allora la loro rivoluzione sarà quella. Dopo gli assaggi direi, una rivoluzione già vinta.
Tornando a casa pensavo alla considerazione di Franco Demoro sul Pigato, che è un vino da bere con qualche anno di profondità, poi alla degustazione appena conclusa, e il pensiero di Veronelli sul Lugana [2].
E mi sento di poter aggiungere qualcosa al pensiero di Franco. Il Pigato è un vino duttile. Quando è prodotto con sapienza, se assaggiato giovane, è ricco di profumi primaverili e dona immediatezza e piacevolezza di beva per le sua freschezza e mineralità; dopo qualche anno arriva al compimento di se stesso; se lasciato invecchiare oltre, supera se stesso. Guadagna complessità e profondità, perde gli agrumi ed i fiori bianchi, ma acquista spezie, camomilla, smalti ed idrocarburi, ed in bocca, l’evoluzione delle morbidezze, disegna un profilo cremoso ed avvolgente, diventando un colosso.
Un po’ come la differenza che c’è tra la stessa donna o uomo a 20, 30, oppure 40 anni.
Dipende.
Da che cosa uno cerca…
infondo.
Fabrizio Buoli
[1] “E ‘nt’a barca du vin ghe naveghiemu ‘nsc’i scheuggi
emigranti du rìe cu’i cioi ‘nt’i euggi
finché u matin crescià da puéilu rechéugge
frè di ganeuffeni e dè figge
bacan d’a corda marsa d’aegua e de sä
che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na creuza de mä.
Ultima strofa di Creuza de Mä, dall’album Creuza de Mä, Ricordi 1984.
E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli
emigranti della risata con i chiodi negli occhi
finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere
fratello dei garofani e delle ragazze
padrone della corda marcia d’acqua e di sale
che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare.
[2] “Bevi il tuo Lugana giovane, giovanissimo e godrai della sua freschezza. Bevilo di due o tre anni e ne godrai la completezza. Bevilo decenne, sarai stupefatto della composta autorevolezza. I Lugana, cosa rara nei vini, hanno una straordinaria capacità di farsi riconoscere. Tu assaggi un Lugana e, se sei un buon assaggiatore, non puoi dimenticarlo”. Luigi Veronelli